Adriano Dell’Asta
Recensione di Giulia Lami al volume di Adriano Dall’Asta, la Pace russa.
Il libro di Adriano Dell’Asta presenta caratteri di estrema originalità fin dal titolo, dove il termine Pace può stupire in relazione al fatto che la Russia ha appena scatenato una guerra a tutti gli effetti contro uno dei sui vicini, l’Ucraina. Da russista qual è, Dell’Asta chiarisce subito che Pace (mir) e Mondo (mir) in russo sono sinonimi e ben sappiamo ormai che la dottrina del Russkij mir o Mondo russo identifica un insieme di concetti che vorrebbero supportare la proiezione esterna della Federazione russa, all’insegna di un nuovo universalismo, visto come capace di riempire il vuoto idelogico lasciato dal crollo del comunismo di tipo sovietico. A questo ambiguo neologismo è sottesa una visione che più che culturale o politica diventa metafisica, pretendendo di inglobare, accanto ad un’idea di Stato, anche la religione. Il divieto di pronunciare la parola guerra al posto di operazione militare speciale per connotare l’invasione dell’Ucraina non ha che fare solo con quelli che dichiaratamente avrebbero dovuto essere i limitati obiettivi dell’offensiva (rimozione di Zelens’kyj, installazione di un governo filorusso e così via verso la ‘denazificazione’ delle strutture portanti), bensì si richiama alle famigerate “operazioni speciali” del sistema sovietico, espressione di un “tratto unico, propriamente totalitario” di quel sistema, ben illustrato da Aleksandr Solženycin (p. 7). L’ideologia del Russkij mir ripeterebbe, secondo Dell’Asta, «nelle intenzioni e negli esiti quelle operazioni», perché già «il Grande Terrore si era realizzato come una manovra non puramente politica ma piuttosto di ingegneria/purificazione sociale», eliminando gli ostacoli, anche umani, che si frapponevano alla costruzione di un «mondo nuovo e un uomo nuovo», con il risultato di rivelarsi semplicemente il «suicidio di un popolo» (pp. 8-9), secondo l’espressione di Nikolaj Berdjaev in un saggio del 1918 dall’evocativo titolo Rossija i Velikorossija (Russia e Grande Russia). È triste constatare che quanto è già stato stigmatizzato come negativo da grandi esponenti della cultura russa nel corso del Novecento si ripresenti e sconcerta, comunque, quanto di questo patrimonio ideale sia andato perduto nel putinismo, che, peraltro, non esita ad appropriarsi, all’occorrenza, anche di elementi di un pensiero alto – penso, fra gli altri a Berdjaev – per farne un uso utile ai disegni dell’attuale potere. L’operazione di purificazione dovrebbe consentire di costruire addirittura un nuovo ordine mondiale, eliminando per via gli elementi “estranei”, segnatamente “agenti stranieri”, “nazisti ucraini”, “Occidente collettivo”, e cioè i nemici della civiltà russa nella sua affermata specificità “cristiana”. L’esito, dice Dell’Asta, è quello di «costruire un mondo nel quale l’immagine della Russia come incarnazione dei valori e della tradizione cristiana viene completamente deturpata e, in ultima analisi respinta» (p. 10). Dell’Asta conduce quindi la sua analisi con un corredo di citazioni e rimandi pertinenti, puntuali, supportata da un’ottima e aggiornata bibliografia, soprattutto incentrata sul fenomeno del “conservatorismo russo”, di cui vengono indagate le peculiarità e le contraddizioni. I temi trattati sono quelli “canonici”: Russia ed Europa”; “La Russia contro l’Europa”; la “Russofobia”, con un ottimo excursus dai contemporanei al mondo sovietico e ai classici; il “Russkij mir”, con un approfondito esame delle sue caratteristiche, politiche senz’altro, ma anche culturali e religiose, fra le quali l’autore sottolinea il filetismo e l’approdo al paganesimo. L’originalità di cui dicevo in esordio è per me legata al fatto che Dell’Asta dà spazio a pensatori contemporanei, d’area cristiana, le cui riflessioni permettono di fare luce su aspetti che, in genere, l’approccio strettamente storico-politico o geopolitico degli studi sulla nuova Russia trascura. Risuona quindi la voce di Kirill Hovorun, archimandrita e sacerdote della Chiesa ortodossa ucraina (Patriarcato di Mosca), ex-segretario dell’attuale patriarca di Mosca, che denuncia il complottismo insito nel Russkij mir, laddove questo attribuisce specificamente il secolarismo 2 «all’Occidente globalizzato, di cui la Chiesa cattolica è parte, che vuole distruggere la civiltà russa» (p. 21), come quella di Andrej Zubov, storico e politologo, ma anche specialista in scienze delle religioni, o quella della poetessa Ol’ga Sedakova, la quale, nella Domenica del Perdono, invitava a chiedere perdono per quello che è impossibile perdonare (pp. 23-29). Il capitolo senz’altro più particolare è il 4, dedicato al problema del filetismo, da cui sarebbe connotato il Russkij mir nella critica di un ampio gruppo di teologi ortodossi e persino da parte del cardinale Kurt Koch, dal 2010 presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani (p. 91). L’eresia filetista, condannata nel 1872 nel sinodo panortodosso di Costantinopoli, è denunciata dai teologi di cui sopra come «l’esaltazione esclusiva e orgogliosa della “differenza delle razze e delle differenze nazionali nel seno della Chiesa di Cristo”, una sorta di riduzione della Chiesa a un attributo secondario della nazione e dello Stato» (p. 84). Che in Russia la Chiesa sia stata ridotta a un “dicastero statale” non è senza conseguenze sul piano teologico e per fortuna c’è chi lo rileva, perché potrebbe sembrare che in ambito ortodosso vi sia non solo silenzio (e se ne capiscono le ragioni), ma addirittura assenso. Il caso di Hovorun lo smentisce platealmente. Da parte cattolica, Dell’Asta dà conto del fatto che dal punto di vista religioso, “squisitamente non politico, ma della dottrina cristiana” il Papa, davanti alle giustificazioni “religiose” dell’aggressione, già criticate radicalmente da Koch, ha detto, con riferimento al Patriarca Kirill, «che nessuna autorità religiosa poteva trasformarsi in un “chierico di Stato” o ancora, più sbrigativamente in un “chierichetto di Putin”» (p. 92). «Non solo eresia, ma puro paganesimo» è quanto illustra Dell’Asta, indagando sugli atteggiamenti di varie personalità – fra cui Aleksandr Dugin, ideologo dell’attuale nazionalismo russo –, attraverso le loro esternazioni, ma rendendo conto delle loro idee di partenza. La conclusione è chiara: più ancora che nel libro di Shishkin – autore ben citato da Dell’Asta – sul Russkij mir, qui emerge che questo lancia una sfida “più globale di quello che potrebbe sembrare a prima vista» (p. 102). Si tratta, insomma, di una ideologia in cui la realtà viene abolita a favore della sua rappresentazione e quante volte, in quest’ultimo anno, abbiamo avuto la netta riprova che la narrativa della Russia invertisse sempre l’onere della prova o fosse il riflesso di uno specchio rovesciato? Ho apprezzato, a conclusione di questa buona analisi di tutte le sfaccettature del Russkij mir, l’impegno di Dell’Asta nel delineare un percorso possibile di uscita da questa crisi epocale, che investe la Russia, ma anche il nostro mondo e la sua rappresentazione. È un percorso di ispirazione cristiana, in cui la complessa materia politica e culturale di cui si è trattato nel libro sfocia in una discussione che si sottrae al contingente. Sfida dell’umano, Sfida del discernimento, Oltre il relativismo, Per una nuova responsabilità, Dalla responsabilità al perdono: spunti di riflessione, in cui voglio sottolineare la limpida analisi dell’autentica posizione del Papa, che troppo spesso è stata strumentalizzata da varie parti, senza distinguere il piano dottrinale da quello personale e la lezione che Dell’Asta invita a trarre dal miglior pensiero del dissenso d’epoca sovietica e da quello attuale, che va ora precisandosi nonostante le difficoltà. Mi permetto una considerazione personale, da studiosa del populismo e di Berdjaev, di un pensiero ateo, dunque, e di uno religioso, e da lettrice dei grandi “disvelatori” della menzogna di sovietica memoria: al di là del pentimento, individuale e forse collettivo, per una rigenerazione morale, che permetta di ritrovare se stessi e l’altro da sé e di riaprire un futuro di pace, ci sarà mai posto nelle varie incarnazioni della “Russia” per un’esperienza democratica al di fuori di ogni massimalismo? Per un laico processo di accesso alla normalità, sostenuta da regole e limiti nel rapporto fra potere e società che non spinga a rifugiarsi all’ombra di una leadership apparentemente carismatica, ma in fondo distruttiva? Quante prove deve sopportare quel popolo e far sopportare agli altri prima di accettare di vivere nella realtà senza il ricorso ad utopie e ai loro cascami distopici?