Prima della fine

Paolo Rago (a cura di), Prima della fine. Le relazioni italiano-albanesi nella fase conclusiva della Guerra fredda, Roma-Bari, Laterza, 2021. Il volume rappresenta la terza uscita della trilogia curata da Paolo Rago sulle relazioni italiano-albanesi durante la Guerra fredda, pubblicata da Laterza con il sostegno dell’Ambasciata Italiana a Tirana. Tema generale dell’opera sono i rapporti italiano-albanesi nella fase conclusiva della Guerra fredda, un campo di ricerche che il volume riesce a definire in tutta la sua complessità ed in tutte le sue sfaccettature, dando così un contributo innovativo alla storiografia italiana. Dopo una breve introduzione dove il curatore, Paolo Rago, definisce gli obiettivi della collettanea e presenta i suoi aspetti principali, il primo capitolo, scritto da Settimio Stallone, porta l’attenzione del lettore sulle relazioni italiano-albanesi all’indomani della rottura con la Cina. La politica estera del regime, in linea con la politica dell’equidistanza dai due blocchi teorizzata nei plenum del Partito del Lavoro, venne riconfigurata senza alterare l’essenza isolazionista. L’Albania aprì cautamente agli organismi internazionali e a numerosi paesi europei, tra i quali l’Italia. Il terzo scisma, condotto da un “assurdo, autolesionista isolamento che il leader vide quale unica possibile garanzia per la sopravvivenza prima di tutto del suo potere” (p. 4) fornì alla politica estera italiana la possibilità di formulare una strategia tale da poter mettere il nostro paese al centro di un modello di cooperazione interbalcanica. L’Albania, in linea con la politica dell’amicizia verso gli stati interessati a instaurare relazioni, accolse la ricerca del dialogo come un’opportunità per il proprio futuro, nonostante il permanere di pregiudizi ideologici. La visita a Tirana del ministo del Commercio Rinaldo Orsolo nel 1979 rappresentò la coronazione di lunghi lavori preparativi finalizzati alla stesura e alla ratifica di nuovi protocolli commerciali e alla definizione di un vastro programma di relazioni culturali. Alcune dichiarazioni ritenute offensive verso la politica italiana rilasciate a Radio Tirana e contenute nell’ultimo scritto di Hoxha L’Eurocomunismo è anticomunismo (1980), che si inquadravano nell’ottica di lotte interne al regime schipetaro, misero a rischio questo lungo lavoro diplomatico. Tuttavia, le continue azioni dei governi italiani successivi, guidati da Arnaldo Forlani e poi da Giovanni Spadolini ma anche dall’ambasciatore Gian Paolo Tozzoli, riuscirono a traghettare le relazioni instaurate fino al coronamento di una seconda primavera albanese. Nonostante altrettanti proclami autarchici contro imperialisti e capitalisti vagheggiati da Hoxha in Il pericolo angloamericano in Albania (1982), che era un tentativo rapido e contradditorio di mettere a tacere il terrore generato dalla misteriosa morte di Mehmet Shehu, l’Albania continuò a mantenere buoni rapporti con i paesi vicini. In ambito culturale, la restituzione della Dea di Butrinto inaugurò un periodo di floride relazioni concretizzatesi in borse di studio e collaborazioni tra le rispettive aziende radiotelevisive statali. Ben diversa era la cooperazione in campo economico e commerciale, a fronte di una situazione albanese disastrosa. Dal punto di vista italiano, favorire lo sviluppo dell’Albania avrebbe consentito a Roma di presentarsi al blocco atlantico come interlocutore privilegiato del piccolo paese balcanico, a fronte di competitors internazionali quali Francia, Grecia e Turchia, verso le quali l’Albania non si sottraeva al dialogo. A fronte del nazionalismo esasperato di Hoxha e delle conseguenti virate improvvise del regime, era vitale non lasciare l’Albania sola nelle mani del regime. Il ministro Nicola Capraia riuscì nell’intento di aumentare i volumi degli scambi commerciali, ma le relazioni rimanevano confinate appunto agli scambi economici e culturali, mentre la scelta personale del dittatore per i rapporti privilegiati del regime ricaddero su Atene ed Ankara. A questa debacle fece seguito un maggior impegno dello stato italiano per rimettere le relazioni con l’Italia al centro della politica estera albanese. Era un’impresa difficile: l’Albania continuava a non accettare credito; inoltre, ogni progetto economico e commerciale era subordinato alla linea ideologica del regime, che puntualmente portava a rifiutare proficui investimenti. L’arrivo di Giulio 2 Andreotti alla Farnesina nel governo di Bettino Craxi non cambiò radicalmente la sommatoria delle due politiche, ma contribuì a consolidare il lavoro svolto in lunghi anni di tentativi e buoni propositi. Nel 1983 si arrivò a un accordo sui collegamenti marittimi tra i due paesi, mentre invece i tentativi italiani di favorire il dialogo tra l’Albania e la Jugoslavia parevano risultare inutili, anche perché l’Albania cercava a quel tempo contatti con le grandi potenze occidentali, atlantiche e neutrali. Nel 1984-5, Italia e Albania strinsero nuovi accordi commerciali e culturali, questa volta di ampio respiro; ma nemmeno questa volta il regime accettò la proposta, questa volta proveniente da Bettino Craxi, di instaurare un dialogo privilegiato, di ricevere credito e di attuare una distensione verso Belgrado. Ramiz Alia, successore designato del leader morente, ricordando che l’Albania era un paese comunista ma anche ed innanzitutto un paese europeo, contribuì a mediare tra l’ortodossia ideologica del regime e la necessità di relazionarsi con l’Italia, poichè non vi erano altre opportunità. Da allora in avanti la diplomazia albanese si mostrò indispettita delle relazioni che l’Italia intratteneva con la Jugoslavia. Con la morte di Hoxha nel 1985, Alia cercò di mediare tra una situazione economica disastrosa, che sarebbe migliorata con una decisa cooperazione con l’Italia, e le componenti ortodosse del regime, mantenute in vita nel network legato alla vedova di Hoxha, Nexhmije Hoxha. Giulio Andreotti cercò di convincere le grandi aziende pubbliche italiane a migliorare le relazioni economiche con l’Albania. Questo portò, nel 1985, a un accordo per la costituzione di trading companies che avrebbero mediato tra aziende italiane ed enti albanesi. Il secondo saggio, di Francesco Dandolo, ha una prospettiva temporale più ampia rispetto al saggio precedente. Il saggio presenta una storia dell’economia albanese e dei rapporti economici con l’Italia tra il secondo dopoguerra e gli anni Ottanta. I danni provocati dalla guerra all’economia furono immensi, sopperiti solo in parte dagli aiuti internazionali, che vennero interrotti nel 1947 a seguito della dottrina Truman. Dalla riforma agraria attuata dal 1946 si ottenne uno smembramento del latifondo ma i risultati erano comunque poco significativi, secondo i rapporti della diplomazia italiana, con poche ed immangiabili derrate alimentari disponibili solo su razionamento. Con l’adozione del modello di politica economica sovietica in piani quinquennali e la connessa complessità di sincronizzare i paesi del blocco socialista in un’economia pianificata su scala continentale, il riflesso sull’economia albanese fu da un lato brutale e dall’altro improduttivo, come notato dalla legazione italiana. La principale conseguenza della politica economica sovietica fu la crisi alimentare, che costrinse i pionieri del socialismo balcanico a un drammatico dietrofront nel 1953 e, nell’esigenza di convincere i contadini a versare le proprie quote, al ritorno a un mercato parzialmente liberalizzato, che si traduceva nel permesso dato ai piccoli produttori agricoli di partecipare alle cooperative solo su base volontaria. In realtà, la coercizione, spesso brutale, era più la regola che l’eccezione; questo portò alle rivolte contadine del 1956. Solo negli anni Sessanta la colletivizzazione raggiunse percentuali estese del territorio nazionale, con la trasformazione del paesaggio da pastorale ad intensivo. Ma i piani del regime andavano “per salti”, come scrive Dandolo su traccia dei documenti italiani, non trovando attuazione in evoluzioni lineari o progressive, tra lo scontento ideologico dei sovietici e l’ansia ideologica degli stalinisti albanesi di capire cosa non stava funzionando. Prosaicamente, mancavano strade e vie ferrate, mentre il traffico marittimo era inesistente. I sovietici e gli altri paesi socialisti fornivano ogni anno all’Albania centinaia di migliaia di derrate alimentari, ma queste non bastavano neanche per sopperire ai bisogni primari della popolazione. La rottura con l’URSS, ben riassunta dal punto di vista politico ed economico da Dandolo, portò allo sviluppo della mentalità autarchica. Hoxha, sfruttando la rivalità tra l’Unione Sovietica e l’emergente colosso asiatico, riuscì ad imporsi come punto di riferimento ideologico dello stalinismo e del maoismo in Europa, mentre da un punto di vista economico l’Albania continuò a beneficiare di rapporti economici con i paesi socialisti e con la Cina ribelle. Il 3 disastro economico che ne seguì era conseguenza dell’ortodossia stalinista del regime, che continuava a ritenere l’industria pesante e la produzione di armamenti quali fondamenti per l’economia nazionale, in totale sprezzo della fame e della miseria del popolo albanese – ed in ogni caso sviluppati appunto per salti. Le relazioni con l’Italia negli anni Settanta si stabilizzarono sotto il segno della continuità, sebbene la cooperazione fosse limitata sotto ogni aspetto pratico da diktat ideologici ancor più ostili che in passato. Da un punto di vista commerciale, invece, gli albanesi mostrarono maggior disponibilità, tra i quali uno scambio tra il regime e la FIAT per il valore di cinque milioni di dollari che lasciava intravedere una visuale di lungo periodo. Ma i limiti c’erano e si fecero sentire: l’Albania non poteva essere mercato dei prodotti italiani e non poteva, al contempo, comprare in Italia più di quanto venduto. Negli anni del sostegno cinese (700 milioni di dollari dal 1960 al 1970) alcuni sviluppi dell’economia interna si ebbero con la produzione di cromo e di cemento, mentre un vero fatto compiuto fu l’elettrificazione del paese. Le relazioni commerciali erano dunque vitali per l’Albania, che abbandonò la ricerca del grande ed unico partner per perseguire una strategia di ampiamento dei propri rapporti commerciali su scala mondiale. Mentre negli anni Settanta ed Ottanta la politica italiana fece quel poco che era permesso dai diktat di Hoxha, come anche già mostrato da Stallone, gli anni di Ramiz Alia aprirono ad accordi con l’ENI e con l’ENEL, che sopperirono solo parzilamente alle continue carenze sistemiche. Alia, a differenza del suo predecessore, era giunto alla conclusione che nascondere la povertà a cui il comunismo aveva portato era inutile e controproducente. Dopo la crisi ideologica inaugurata con la perestrojka, alcuni progressi vennero messi in campo da un più ampio coinvolgimento delle aziende pubbliche italiane. Come concluso da Dandolo, la vera nuova fase della storia albanese si aprì quando Alia concesse agli albanesi di viaggiare, nel 1990. Luca Riccardi firma il terzo capitolo del volume, dedicato alla diplomazia italiana e alla persecuzione religiosa dal 1976, anno della promulgazione della nuova Costituzione, agli anni Ottanta. In una cornice di ricerche preliminari ancora frammentarie, Riccardi ricostruisce gli sviluppi successivi al 1977 con l’ausilio degli archivi del ministero degli Esteri. La nuova Costituzione albanese del 1976 considerava superate le basi dell’“oscurantismo religioso”, che era stato spazzato via grazie a un trentennio di feroci persecuzioni. Due articoli della carta fondamentale, quello sulla concezione scientifica materialistica del mondo e quello sul divieto di creare organizazioni a carattere religioso, crearono le precondizioni per la successiva fase repressiva nei confronti della sporadica attività dei pochi cattolici locali. Dopo il 1976, il sentimento religioso in Albania, secondo i rapporti dei diplomatici italiani, viveva in pratiche occulte e segrete. Mentre le frequenze RAI erano captabili, una mano invisibile interveniva censurando immancabilmente ogni trasmissione di immagini sacre o situazioni a carattere di culto, come riferito dai diplomatici italiani, con la sola eccezione del funerale di Papa Giovanni Paolo I. Con l’elezione del suo successore, Giovanni Paolo II, che Hoxha riteneva essere un servo degli interessi statunitensi, i rapporti tra Albania e Santa Sede si inasprirono. A Tirana, il furore iconoclasta si inasprì, secondo l’ambasciatore italiano, a causa della convinzione che si fossero stabilite conpiacenze ideologiche tra cattolicesimo e comunismo, proprio perchè Wojtila proveniva dai paesi del socialismo reale (paesi revisionisti, secondo Hoxha). Il regime, sulle prime, non prese il papa come bersaglio per non portarlo all’attenzione della popolazione ma in seconda battuta scelse di costruire il pontefice come nemico internazionale numero uno dell’Albania. Forse a causa di questo rumore di fondo anche i paesi occidentali iniziarono ad occuparsi della repressione religiosa in Albania. Diedero, ad esempio, la notizia che Ernesto Coba, amministratore apostolico di Scutari, era stato ucciso a bastonate per aver celebrato la messa nel giorno di Pasqua. Nonostante l’ateismo fosse predicato e messo in atto con atti di violenza in patria, il regime non ebbe nulla da dire sul fanatismo religioso di Khomeini, poiché di esso capì l’arma petrolifera, la sfida agli Stati Uniti e all’Unione Sovietica. Solo dopo alcuni mesi i dignitari albanesi 4 compresero che il fondamentalismo religioso iraniano non era da sottovalutare per i suoi effetti regionali. Con il rapporto Amnesty del 1984, le persecuzioni ed i soprusi compiuti dal sistema albanese sui dissidenti politici vennero presentate all’opinione pubblica internazionale. Da quel rapporto, l’Italia concluse che incoraggiare la recente apertura albanese era più che mai necessario, poichè ad essa ne sarebbero potute seguire molte altre. Karol Wojtila non smise mai di denunciare le violenze e i soprusi subiti dai cattolici in Albania. Alla morte di Hoxha, la Santa Sede ribadì la dura condanna al regime per la persecuzione delle religioni, mentre lo stato italiano e la società civile cercarono di moltiplicare quei punti di contatto con l’Albania. Con Alia, le persecuzioni religiose si affievolirono fino a divenire intolleranze attaccate pubblicamente ma con sempre minor aggressività verbale. Come ultima richiesta prima della sua autodistruzione, il regime suggerì alla diplomazia italiana che eventuali ritorni di istituzioni religiose non avrebbero comunque dovuto disturbare la primazia del partito. Il quarto capitolo, di Nevila Nika, riguarda i circa 20.000 italiani presenti in Albania negli anni dell’immediato dopoguerra. Un capitolo breve, ben curato e basato su fonti tratte dagli archivi albanesi, sulle persecuzioni operate dalle autorità comuniste. Il capitolo fa luce su una pagina molto dolorosa delle relazioni italiano-albanesi. Come afferma Nika, “nulla può giustificare le azioni compiute dalle autorità comuniste albanesi di quegli anni riguardo alle condanne definitive, ai maltrattamenti fisici e psicologici eservitati nei confronti dei cittadini italiani civili che lavorarono e vissero in Albania prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale” (p. 199). Rimane da chiedersi perché questa pagina nera delle relazioni italianoalbanesi sia rimasta fino ad oggi così poco conosciuta. Il quinto saggio, scritto da Anna Esempio Tammaro, riguarda la questione dell’oro della Banca Nazionale d’Albania (BNA) durante la Guerra fredda e si incentra sul periodo che va dal 1957 al 1998. L’oro della BNA era stato trafugato dai fascisti e portato in Germania prima della fine della guerra. A chi apparteneva? Italia, Regno Unito e Albania se lo contesero (civilmente) per vari decenni in un contenzioso giuridico internazionale formalizzato dalla Commissione Tripartita nel 1946. Nel 1957, la Commissione prese decisioni particolarmente premianti per Italia e Gran Bretagna ma escludenti per l’Albania, contro la quale non vi era tuttavia base legale per escludere la dura opposizione al ricorso. Il paese balcanico non era aperto ad alcun tipo di negoziato ma, poiché gli altri attori internazionali non riuscivano ad accordarsi, Tirana venne coinvolta nel tentativo di sbloccare la situazione – con il solo risultato di complicarla ancora di più. Il contatto, cercato nel 1965, produsse i primi dialoghi tra Regno Unito e Albania solo nel 1980 e ebbe, come effetto, la reiterazione della politica dura e pura albanese concernente la restituzione dell’oro e il non riconoscimento della Corte Internazionale di Giustizia quale organo competente per deliberare sul vecchio incidente di Corfù risalente al 1949. Solo nel 1992 il governo italiano rinunciò all’oro, favorendo il trasferimento di 1623 kg di oro in Albania, mentre il resto venne diviso tra tutti i paesi che avevano subito spoliazioni da parte dei nazisti. Il sesto capitolo, di Pranvera Teli-Dibra, analizza il contributo italiano all’apertura albanese dalla seconda metà degli anni Ottanta attraverso la ricca documentazione degli archivi albanesi. Alla morte di Hoxha, le due diplomazie concordarono che le relazioni avrebbero dovuto basarsi sull’eguaglianza, sul non intervento negli affari interni reciproci e sulla reciproca convenienza. Con il suo tentativo di riavvicinamento, l’Italia stava attuando parte della sua politica da attore protagonista nel Mediterraneo. Cultura e commercio furono le basi di questa nuova relazione. Il regime comunista continuava a non accettare aiuti o finanziamenti, ma non disdegnava di firmare accordi bilaterali su vari aspetti quali la cultura, anche con il coinvolgimento degli arbëreshë, ed ambiti più propriamente economici quali l’energia, il turismo, la ricerca e la ricerca del petrolio. L’ingresso di sei cittadini albanesi, i fratelli Popa, nell’ambasciata italiana, con la richiesta di asilo politico, misero in seria 5 difficoltà le relazioni bilaterali per lungo tempo. La franca e onesta dichiarazione del rappresentante italiano in difesa dei diritti umani al suo corrispettivo albanese, che tentò un’incredibile arrampicata sugli specchi per giustificare la posizione albanese, definendo la fuga dei sei un tentativo di forze nemiche per distruggere le relazioni italo-albanese, non trovò soluzione. Il regime pretendeva che i sei venissero estromessi dall’ambasciata italiana e che non venisse fatta menzione del fatto all’opinione pubblica. Così non fu: il caso Popa divenne internazionale. Da allora, il regime pretese una soluzione all’incidente per poter continuare a sviluppare le trattative con l’Italia. Un’altra vicenda simile nella difesa italiana dei diritti umani ma diversa nella sua scenografia, quella della nave da pesca Dukat, arrivata di straforo in Italia, fece in tempo a iniziare e chiudersi nel 1989 prima che, nel 1990, le autorità albanesi dichiarassero che i Popa potevano recarsi in Italia. Poco dopo, due cittadini albanesi della minoranza greca replicarono le imprese dei Popa – ma questa volta, a fronte della lesson learned e della continuata insistenza degli italiani nel rispetto dei diritti umani, la vicenda si risolse in soli otto giorni con l’espatrio dei due. Con la vicenda dei Popa, l’Albania era stata per lungo tempo sotto i riflettori internazionali. Dopo decenni, all’alba degli anni Novanta l’Albania riconquistava un volto pressoché umano. Alia dichiarò: “non abbiamo paura di riconoscere i nostri errori” e, nel giugno 1990, aprì alla concessione di visti e passaporti. Fu, quello, l’inizio della fine del regime albanese. L’ultimo saggio del volume, scritto da Markenc Lorenci, si incentra sugli studenti albanesi che hanno visitato l’Italia dal 1978 al 1990. Per le generazioni di studenti universitari che iniziavano gli studi dopo la conclusione della crisi sino-albanese, l’Italia era l’unica alternativa di studiare all’estero, tramite queste iniziative unilaterali a loro dedicate dallo Stato italiano con il supporto delle università. Era uno dei più lenti e graduali, ma potenzialmente fruttiferi, filoni di scambio dal quale l’Albania avrebbe potuto trarre il know how che negli anni precedenti aveva cercato nei sovietici, negli specialisti dei paesi dell’est europeo e poi nei cinesi; ma si parlava comunque di poche unità che ogni anno attraversavano l’Adriatico per studiare in Italia. Nel saggio di Lorenci troviamo una lunga lista di ambiti scientifici e umanistici nei quali gli studenti albanesi si cimentavano nelle università italiane nonché il vasto programma di scambi specifici tra enti italiani ed Albania. Come rilevato da Lorenci, il volume L’Eurocomunismo è anticomunismo di Hoxha produsse un notevole raffreddamento delle relazioni bilaterali. Tuttavia, queste vennero presto ristabilite con l’invio di nuovi studenti anche negli anni successivi. Gioia ed emozione suscitò invece la dichiarazione di Hoxha di voler ristabilire relazioni bilaterali in uno spirito di amicizia ed eguaglianza. Questa dichiarazione avrebbe portato al momento più alto delle relazioni italiano-albanesi nell’era della Guerra fredda, secondo Lorenci – fino alla già discussa vicenda dei fratelli Popa. Una importante riflessione del saggio è contenuta nelle sue righe finali, che cito in extenso: “[…] nel riflettere sui rapporti culturali tra i due Paesi, penso sia importante notare una certa tendenza della diplomazia come anche della storiografia italiana degli ultimi anni, a dare molta rilevanza a qualsiasi affermazione fatta in quegli anni dalla leadership albanese, positiva o negativa che fosse, senza cogliere l’ambiguità dell’indole politica che caratterizzò il regime di Tirana durante tutta la sua esistenza. Come ho cercato di dimostrare in questo lavoro [nel capitolo, n.d.r.], malgrado l’adesione a una serie di programmi culturali e di accordi universitari e nonostante le molto promettenti intenzioni espresse durante le scarse cerimonie che ebbero luogo in specifiche occasioni, nel periodo analizzato non si può parlare di una vera e propria apertura culturale albanese nei confronti dell’Italia. Le eventuali concessioni albanesi nei confronti dell’interlocutore furono realizzate solo in virtù di necessità contingenti e comunque sempre all’interno di un clima pesantemente condizionato da ossessioni politico-ideologiche” (p. 311). 6 Nel complesso, il volume porta alla luce dinamiche inesplorate delle relazioni tra Italia ed Albania negli ultimi anni della Guerra fredda. Ogni capitolo, preso a sé, è di grande interesse e di ricchezza documentativa, nonché di notevole spessore interpretativo. È il primo volume dedicato alle relazioni italiano-albanesi per il periodo sotto esame; riesce egregiamente nel definire le intenzioni dei suoi protagonisti, le incomprensioni tra le due sponde dell’Adriatico, i pochi e limitati successi, nonché gli incidenti e i cambi di rotta improvvisi dettati dal fanatismo neo-stalinista del regime di Tirana. Manca, forse, un capitolo conclusivo dove si sarebbero potuti sintetizzare i risultati di ogni saggio, in modo da ottenere una più generale interpretazione del periodo conclusivo del comunismo albanese e delle sue relazioni con l’Italia. Tuttavia, un’interpretazione generale emerge chiaramente dalla lettura complessiva del volume. Il volume merita di essere studiato dagli specialisti di relazioni internazionali e dagli storici dell’Europa orientale; sperando che a questa più recente antologia della trilogia curata da Paolo Rago faccia seguito anche un quarto volume sulle relazioni tra Albania postcomunista ed Italia post-Prima Repubblica.
Francesco Zavatti – per AISSECO

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Author: Aisseco

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